Tutte le religioni sono simili?
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Tutti i sistemi filosofici, spirituali, religiosi o misterici, si ispirano a un insieme di principi, più o meno complessi, da cui sono governati. Da esso discendono cause ed effetti, non solo nel mondo per così dire immanente – ovvero quello che sperimentiamo attraverso la materialità dei nostri sensi – ma anche, spesso, nei cosiddetti mondi trascendenti; tra questi, di solito, distinguiamo quello dell’oscurità, asserito appannaggio dei morti e, non di rado, di tutte le cose negative, e quello cosiddetto “superiore” o della luce, affine a ciò che è bello, buono e latu sensu positivo.
Non importa quale siano i luoghi in cui sono stati generati miti e visioni spirituali; tutte loro – con ragguardevoli per quanto rare eccezioni – condividono l’esigenza di essere fine e inizio dell’universo che descrivono. Universi che, in quelle regole, devono trovare non solo spazio per esistere ma anche ragioni e giustificazioni di ciò che, invece, avviene qui, nel luogo della materialità.
Con ciò, è bene evidenziarlo con chiarezza fin dall’inizio, non si vuole muovere una critica a questa o a quella visione spirituale o filosofica, men che meno ad alcuna religione. Semplicemente si intende applicare la pratica dell’osservazione – oggettiva e neutrale – anche a questi contesti. Contesti che – potrebbe sostenere qualcuno – esistono alla stregua degli altri costrutti umani, ancor prima di essere riconosciuti e vissuti come veri, autentici e reali a tutti gli effetti.
Applicando allora la nostra osservazione passiva, priva di intenzioni o giudizi, potremmo notare come detti contesti condividano la comune esigenza di possedere alcune caratteristiche intrinseche. Nel ricercarle daremo quindi loro una definizione, non tanto per amore delle etichette, quanto piuttosto per esigenze di ordine logico e di condivisione…
Come si diceva, ogni filosofia/religione/visione possiede – anzi si fonda – su alcuni principi cardine. Su questi, a loro volta, al pari di teoremi “scientifici”, si radicano corollari su corollari, fino a creare una intelaiatura che, allo stesso tempo, è contesto e struttura portante del sistema in esame. Si tratta degli strumenti necessari per garantire, secondo molti, la cosiddetta coerenza interna di un sistema ma, come vedremo più avanti, questo approccio strutturale assolve a funzioni specifiche e ben definite.
Facciamo un esempio (cui peraltro sono particolarmente legato) e pensiamo ad uno dei sistemi più noti, diffusi ed efficaci, cioè all’Ayurveda. L’Ayurveda, in via approssimativa, si fonda sull’esistenza di cinque elementi, di densità diversa e variabile, che mutano l’uno nell’altro, aumentandone il livello da quello livello eterico (ākāśa) a quello materiale (pṛthvī).
Questi sono considerati come i veri e propri mattoni dell’universo nonché dell’essere umano, e sono conosciuti come i cinque grandi elementi. Stiamo parlando, com’è ovvio, di
- spazio/l’etere (ākāśa)
- aria (vāyu)
- fuoco (tejas)
- acqua (jala)
- terra (pṛthvī)
Che tutto si fondi su essi è una “teoria fondamentale” dell’Ayurveda. Non è importante, in questo contesto, analizzare le radici (scientifiche, sperimentali, logiche, fideistiche ,…) che abbiano indotto i fondatori del sistema a raggiungere questa consapevolezza; sta di fatto che essa “è” un presupposto fondamentale dell’Ayurveda.
Tutto ciò che ci circonda – per l’Ayurveda – è pertanto composto da un differente assortimento di questi elementi, ovviamente in proporzioni diverse. Circostanza che, ripetendosi anche all’interno dell’essere umano, determina consequenzialmente la teoria dei tipi costituzionali (i dosha) ma anche, scendendo per così dire di livello, dei tipi di tessuto (dhata), dei tipi di canali del corpo (srotas) e dei tipi di accumulo di tossine (ama).
L’esistenza dei Dosha, Dhata, Srotas e Ama è un “corollario” della teoria principale. Con questo – si badi bene – non si vuole assolutamente sottintendere che questi ultimi siano una ricostruzione irreale o inefficace allo scopo per cui furono pensati; non si ha alcuna intenzione di ridurli a meri costrutti mentali dell’uomo, a categorie astratte o dedotte dalla realtà immanente. Semplicemente si osserva come il “sistema Ayurveda” sia fondato su una serie di principi fondamentali e di corollari, all’interno dei quali ogni cosa (dall’universale al microscopico) può essere considerato, letto, interpretato e giustificato. I Dosha, a loro volta, danno origine ai cosiddetti “tipi costituzionali”, composti ciascuno da un diverso assortimento dei mattoni fondamentali innanzi ricordati. Ed ecco che la composizione degli elementi fondamentali produce il tipo Vata, Pitta o Kapha. In ognuno di essi si assiste alla prevalenza di alcuni dei cinque elementi fondamentali. Etere e aria per Vata, fuoco e acqua per Pitta, acqua e terra per Kapha.
La struttura dell’Ayurveda – in questo contesto solo accennata, e peraltro in modo assolutamente sommario – fornisce non soltanto un contesto all’interno del quale leggere ogni circostanza, ma anche una chiave interpretativa per giustificare (ovvero dare una spiegazione comprensibile) ogni possibile evento. Così il tipo costituzionale Vata, ad esempio, può andare in contro a insonnia, disordini respiratori e difficoltà digestive. Siccome, poi, ogni cosa contiene una porzione dei cinque elementi fondamentali, ogni squilibrio può essere bilanciato dall’assunzione di quegli elementi di cui si è carenti o dalla riduzione di quelli per i quali si attraversi un eccesso. Il tipo Vata può, per restare nella banalizzazione del nostro esempio, trarre beneficio nello stare al caldo, nel prediligere gusti dolci-aspri e salati o nel ridurre il consumo di quasi tutti i legumi.
È evidente, stiamo banalizzando una conoscenza millenaria, ma questo solo allo scopo di mettere in evidenza il sistema astratto alla base del suo funzionamento, al pari di ogni altra visione filosofica o spirituale, come appunto si diceva. Questa esigenza di contemplare ogni possibilità in un disegno che, per quanto anche assai complesso, sia riconducibile a poche regole fondamentali, potrebbe essere definita come una tendenza al “riduzionismo universale”. E il termine non tragga alcuno in errore, è tutt’altro che dissacratore o sprezzante; la scienza moderna e occidentale, quella che ha portato l’uomo sulla luna, sconfitto malattie terribili e che ci ha consegnato una vita, tutto sommato, più comoda e sicura, è stata – almeno fino poco prima dei nostri giorni – la massima espressione del pensiero riduzionista.
Ridurre i problemi complessi in altri più semplici da risolvere non solo è una attitudine efficace nel cosiddetto problem solving, ma ha costituito una efficientissima strategia di sopravvivenza per gli uomini nel corso della loro evoluzione.
Accanto a questa esigenza primaria, ne possiamo però identificare altre. Immediatamente dopo la prima incontriamo infatti, quella che potremmo definire come “autoreferenzialità”. Con tale termine intendiamo riferirci al bisogno, avvertito da ognuno dei sistemi in esame, di trovare una giustificazione di ogni fenomeno al proprio interno. Mi spiego meglio; in ogni sistema oggetto della nostra osservazione ciascuna circostanza (tanto una malattia quanto un fenomeno fisico) deve trovare una causa, di cui è effetto, all’interno di sé stesso. Ad esempio – per restare nella banalizzazione precedente – un tipo costituzionale Pitta, può risentire di carenze degli elementi costitutivi (fuoco e acqua), ma al contempo può soffrire degli eccessi degli stessi o degli altri elementi.
Trovare una giustificazione “interna”, al pari del riduzionismo universale, consente di contenere ogni fattispecie umanamente percepibile e di trovarne una spiegazione non solo logica ma anche coerente con il sistema stesso. Ciò non soltanto consolida, agli occhi dei praticanti, l’efficacia del sistema applicato ma, contemporaneamente, rinforza la fiducia degli stessi nel medesimo. Trovare SEMPRE una giustificazione (nella dinamica causa/effetto) all’interno di un determinato sistema raggiunge quindi l’indubbio obiettivo di ampliare e fidelizzare i propri aderenti.
Ma non basta; accanto al riduzionismo universale e alla autoreferenzialità, ogni sistema possiede una terza caratteristica fondamentale che definiremo come “esclusionismo”; con questa nuova etichetta ci riferiamo alla tendenza – intrinsecamente propria dei sistemi in parola – di escludere l’applicazione di qualsivoglia altro sistema nella risoluzione dei problemi, tanto di questo mondo quanto degli altri.
Non si tratta di assumere una posizione isolazionista, tipica degli estremismi; non si tratta di dire “o con me, o contro di me”, quanto piuttosto di escludere l’utilità – o persino la veridicità – di quanto affermato dalle teorie degli altri sistemi. Ciò asseritamene in ragione della fondatezza e delle teorie e dei corollari del “proprio” sistema ma, in realtà, plausibilmente per garantire la sopravvivenza di quest’ultimo ed escludere possibili contaminazioni. Principi e corollari, infatti, per resistere nel tempo non devono soltanto essere giusti (cioè essere sempre verificabili) ma devono anche reggere all’assedio portato dai sistemi antagonisti. Escludere il bisogno di ricorrere a qualsiasi principio e teoria “esterne” (l’autoreferenzialità) è già un buon sistema, ma stigmatizzarle come infondate funziona ancora meglio.
Grazie e in virtù di queste tre “semplici” regole, ogni sistema si garantisce le massime possibilità di propagazione e sopravvivenza, in modo non dissimile da un qualunque essere vivente che è tale in ragione della capacità di modificare l’ambiente che lo circonda a proprio vantaggio.
Dunque, con questo cosa si vuole evidenziare? Che ogni sistema teoretico (filosofia, religione, …) per sopravvivere nei secoli – e non di rado nei millenni – deve adottare alcune strategie che, a prima vista, potrebbero apparire discutibili o poco trasparenti?
No, assolutamente no. L’osservazione neutra e oggettiva esclude la formulazione di qualsivoglia giudizio di valore. Piuttosto questa consapevolezza può spingerci a cercare se esistano sistemi in cui questi principi fondamentali (riduzionismo universale, autoreferenzialità ed esclusionismo) non siano applicati o, almeno, siano meno “rigidi”…
Questa ricerca, tuttavia, non va rivolta per individuare possibili frange di flessibilità in uno piuttosto che in un altro sistema, ovvero ricercarne l’eventuale permeabilità all’impiego di teorie esterne; la vera ricerca dovrebbe invece essere orientata a trovare quei sistemi intrinsecamente aperti all’impiego di ogni possibile teoria utile al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Questi sistemi – se esistenti – hanno abbandonato i principi innanzi indicati per adottarne uno diverso, che potremo definire con l’etichetta di “funzionalismo”. Con questa espressione ci riferiamo alla tendenza di valutare uno strumento non in ragione della sua origine o forma privilegiando invece la sua efficacia nel contribuire al raggiungimento di un obiettivo.
Un sistema funzionalista non solo è aperto all’impiego di teorie e di principi ultronei, ma anzi tende a ricercarne il più possibile, andando – di fatto – a costituire un ricco patrimonio cui attingere nel momento del bisogno. Ciò, si aggiunga, non viene fatto con spirito sincretico; questo, infatti, favorirebbe la creazione di un ulteriore sistema di sintesi tra due o più sistemi preesistenti. Viene fatto piuttosto con spirito eminentemente pratico, ovvero al solo scopo di disporre di un numero sempre maggiore di “arnesi” utili.
Infatti, senza la spinta a ricercare l’integrazione di principi e teorie, questo approccio libera, chi lo adotta, dalle ansie conseguenti al bisogno di preservare l’integrità e la coerenza di un sistema a scapito degli altri!
Volendo fare un paragone ardito, mentre i sistemi connotati da riduzionismo universale, autoreferenzialità ed esclusionismo danno origine alla katana giapponese (che per alcuni rappresenta l’apice della ricerca della perfezione materializzata in un raffinatissimo strumento di morte), quelli improntati al funzionalismo danno origine al coltellino svizzero; un multiuso sgraziato e privo di un valore intrinseco, se non quello che sta nella sua capacità di servire in tante e differenti occasioni!
Intendiamoci: io adoro la katana, ne ho studiato la storia e, in qualche misura, anche l’impiego. Tuttavia, se mi trovassi in un bosco, sperduto o nel corso di una banale escursione, preferirei di gran lunga avere con me un pratico coltello multiuso, piuttosto che una meravigliosa spada da samurai.
E dunque esistono sistemi di questo tipo? Si, accanto a una variegata serie di visioni spirituali più o meno rigidamente ingabbiate nei tre principi in argomento, esiste una corrente che fa della praticità il proprio cavallo di battaglia. Mi riferisco al cosiddetto sciamanesimo contemporaneo. Lo sciamanesimo ha origini antichissime e da molti viene considerato essere una sorta di proto-religione.
La sua storia affonda nell’animismo naturalistico in modo non dissimile da altre visioni spirituali di tutto il mondo; tuttavia, a differenza di queste, lo sciamanesimo si è sempre distinto per la sua particolare attitudine alla praticità cioè per la spiccata attenzione al raggiungimento di obiettivi concreti, qui e ora, non rinviati a un’altra vita. Non a caso gli sciamani concedevano i propri servizi per risolvere questioni eminentemente pratiche e prendevano le distanze sia dagli uomini medicina sia dai capi spirituali di una comunità; a loro, infatti, ci si rivolgeva quando non c’erano altre possibilità, vuoi perché i tentativi precedenti erano falliti, vuoi perché ciò che si intendeva raggiungere non era accettabile dalla visione spirituale ufficiale o dalla morale comune della comunità.
Questo distanziamento ha prodotto inevitabili conseguenze. Lo sciamanesimo è stato progressivamente compresso in spazi della conoscenza assai più ristretti che alle sue origini, schiacciato com’è dalle infinite religioni millenarie cui si è prepotentemente aggiunta, nel tempo, la visione materialistica e riduzionista occidentale.
Fatta eccezione per qualche rigurgito animista, rinverdito dalle ormai demodée correnti new age, lo sciamanesimo è rimasto sotterraneo per molto tempo, quasi fino a sparire del tutto. Conservando tuttavia la propria caratteristica dominante – la praticità appunto – lo sciamanesimo ha saputo sopravvivere in diverse forme. Si pensi, ad esempio, a Carl Gustav Jung, uno dei padri della moderna psicologia; questo indagatore della psiche umana faceva ampio uso di alcune tecniche sciamaniche e lo stesso ricorso al modello degli archetipi ricalca significativamente il sistema proto-religioso degli sciamani tradizionali.
Restando appannaggio di pochi, lo sciamanesimo ha faticosamente guadagnato l’interesse di molteplici persone che, tuttavia, per lo più costituiscono nicchie isolate all’interno di un sistema indissolubilmente dominato da esigenze e logiche di potere, dominio, separazione e interesse.
L’innata praticità originale dello sciamanesimo – plausibilmente derivante dall’assenza di un chiaro e codificato sistema nozionistico secolarizzante – sapeva sfruttare al meglio la conoscenza istintiva e primaria della razza umana, così spiegandosi come alcune pratiche, alcuni simboli, alcune visioni siano diffuse e affini praticamente in tutto il mondo.
Come la psicologia aveva ben compreso, riallacciarsi a valori ancestrali non solo consente una comunicazione profonda con lo strato più istintivo, sepolto e potente di ogni uomo e donna, ma lascia un ampio margine di libertà di azione, mancando un sistema connotato dai principi di riduzionismo, autoreferenzialità ed esclusionismo innanzi indicati.
Certo, l’assenza di un sistema condiviso e secolarizzato, la mancanza di guide spirituali comuni e di regole scritte ne hanno indebolito la resistenza rispetto agli altri sistemi spirituali e filosofici che, a conti fatti, possono ben dire di aver vinto fino a oggi la loro battaglia. Lo sciamanesimo, tuttavia, resta per sua natura schivo e rifiuta ogni confronto, consapevole che la propria forza sta nelle profondità umane e non in strumenti di separazione.
Di fatto lo sciamanesimo non è nemmeno interessato al proselitismo e men che meno al suo radicamento; la comprensione dei meccanismi costituenti il minimo comune denominatore dell’uomo (e della vita), libera infatti da esigenze di questo genere, così come dal bisogno di creare e difendere un hortus clausus in cui professare le proprie idee. La libertà che ne deriva favorisce l’inclusione di ogni strumento utile, di ogni pratica efficace, di ogni idea azzeccata con cui venga in contatto lo sciamano. Non si tratta di un relativismo teoretico quanto invece dell’apoteosi del senso pratico, della volontà di trovare una soluzione il più efficace possibile ai singoli casi, nelle singole situazioni.
Ciò tuttavia, contrariamente alle aspettative, non conduce al proliferare di strumenti e sistemi particolarmente differenti gli uni dagli altri; l’attenzione estrema agli effetti di una pratica, infatti, spinge lo sciamanesimo a scendere sempre il più possibile all’interno dell’animo umano, lì rinvenendo il mezzo più idoneo al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Ecco, dunque, perché le pratiche sciamaniche mantengono un comune fil rouge in tutti i tempi e in tutto il mondo. Ed ecco anche perché lo sciamanesimo contemporaneo, sgravato (se occorre) dei richiami naturalistici originari, può offrire ancora molto alle donne e agli uomini di questo tempo che, non suoni strano, in realtà non sono così tanto diversi dai comuni e remoti progenitori…